domenica 11 dicembre 2011

La strana storia della "Flakkrafte Brasilien"

Qualche anno fa, durante una dei miei viaggi in Austria, ho trovato su una bancarella di un "Flohmarkt" una cornice con una croce di ferro di 2° classe e il relativo attestato. Potete immaginate che non me la sono lasciata scappare, rimandando al mio ritorno lo studio del documento per individuare l'unità di appartenenza del decorato. Con mia enorme sorpresa ho scoperto che il "kanonier" Simon Brandstetter, era stato decorato il 22 maggio1942 quando faceva parte del "Flakkrafte Brasilien" ( Forza contraerea "Brasile" ) che ricadeva sotto la giurisdizione del Luftgau VII, cioè di unità della quale non avevo mai sentito parlare prima e nulla potevo trovare sui sacri testi di storia militare o nei siti specializzati.
Dopo un mese e molte supposizioni ( una compagnia composta da figli di emigrati tedeschi in Brasile, ecc.. ), finalmente un primo indizio: da un forum sul quale avevo postato la foto dell'attestato mi è giunta la seguente enigmatica indicazione: "cerca sul sito della città di Lauffen".
Seguendo il suggerimento, non solo sono riuscito a dare una risposta a tutte le mie domande, ma ho scoperto una storia che sicuramente pochi conoscono anche perchè non è mai stata divulgata dai "vincitori".
La citta' di Lauffen faceva parte della linea di difesa occidentale nel tratto fortificato Neckar-Enz con ben 11 fortificazioni. Pur non essendo mai stata utilizzata a tale scopo Lauffen subi' ben 37 bombardamenti aerei dal 22 agosto 1940 al 23 marzo 1945. Fino al 1943 la causa di questi unusuali e inspiegabili attacchi da parte degli alleati fu una finta installazione realizzata dalla Luftwaffe e denominata "Brasilien" (Brasile) e collocata a poca distanza dalla citta'. Il Comando Costruzioni della Luftwaffe ebbe l'incarico di realizzare una copia quasi perfetta della stazione principale di Stoccarda che in realta' si trovava a decine di chilometri di distanza. Usando grandi sagome di legno, pietre simili a quelle utilizzate per le pareti della vera stazione, stuoie stese per terra per imitare le strade, luci in movimento per simulare il traffico stradale, si ottenne un "sosia" perfetto della stazione di Stoccarda. Per la difesa di questa falsa stazione furono realizzate postazioni di artiglieria anti-aerea perfettamente efficienti.
General der Flakartillerie Emil Zenetti
Queste postazioni furono servite da personale della Luftwaffe fino al 25 gennaio 1943 quando vennero reclutati anche i giovani della Hitler Jugend come "Flakhelfer" ( aiutanti artiglieri ). Vennero utilizzati anche molti prigionieri russi "volontari" inquadrati nell'Hiwis ( Hilfswillige russische Kriegsgefangene ) che aiutavano a rimuovere le macerie e riparare i danni. 30 forti riflettori e 50 postazioni antiaeree con un largo numero di cannoni e mitragliere servivano a sottolineare l'importanza di questo falso obiettivo. Sulla finta stazione , denominata in codice "Brasilien", cadde un'enorme quantita' di bombe ad alto potenziale e incendiarie. Per gli abitanti della regione fu un evento eccezionale tanto da attirare molti curiosi per assistere agli attacchi sui finti obiettivi che salvavano la vicina Stoccarda. E' straordinario quindi ritrovare oggi un documento ufficiale come questo attestato che riporta formalmente il nome segreto di questa straordinaria operazione di depistaggio organizzata dagli alti comandi della Luftwaffe.
Dal 1940 al 1942 "Brasilien" riuscì a distogliere moltissimi attacchi aerei indirizzati verso il vero obbiettivo che era la stazione di Stoccarda. Solo nel 1941 caddero nei dintorni di Lauffen 100 bombe ad alto potenziale e 1500 bombe a frammentazione. L'ultimo raid alleato venne effettuato il 6 maggio 1942.  Con l'uso del radar, infatti, gli aerei alleati furono in grado di effettuare ricognizioni aeree di maggior precisione così da scoprire finalmente l'inganno nel quale erano caduti per ben due anni.
L'intero sistema venne pertanto abbandonato dalla Luftwaffe e, dopo la guerra, le sue grosse pietre simili a quelle della stazione di Stoccarda, furono riutilizzate dagli abitanti di Lauffen per la ricostruzione della loro città. Questa si trovava infatti assai vicina al sistema difensivo "Brasilien" e fu spesso colpita dai raid aerei tanto che vi è testimonianza di ben 37 devastanti bombardamenti subiti dalla città nel corso dei primi anni di guerra. Tutto ciò non poteva certo far piacere ai suoi abitanti che erano particolarmente arrabbiati con i cittadini di Stoccarda tanto che nel 1958, il sindaco di Stoccarda Arnulf Klett ritenne doveroso porgere le scuse ufficiali della sua città alla cittadinanza di Lauffen.
Non mi risulta che questa storia sia mai stata ufficialmente raccontata e se ne può ben comprendere il motivo: la Raf non fa certo una bella figura! 
Batteria della "Flaklkrafte Brasilien" impegnata nella difesa della finta stazione di Stoccarda presso Lauffen

domenica 9 ottobre 2011

Camerun, gli albini perseguitati dal pregiudizio

Camerun, gli albini perseguitati dal pregiudizio Il racconto: "Noi, braccati e sacrificati"
Stephane Ebongue, il giornalista del Camerun
 rifugiato politico in Italia 
Un'altra terribile strage nascosta della quale ho appreso leggendo un articolo di Repubblica.it del quale pubblico uno stralcio dell'intervista a Stephane Ebongue, che fa parte della minoranza di duemila persone che scontano un basso livello di melanina: "C'è un vulcano nel mio Paese", racconta ancora Stephane. "Si chiama Epassamoto, che significa mezza persona, perché è ritenuto mezzo uomo e mezzo animale. Le credenze popolari dicono che in quel monte ci sia Dio e quando il vulcano   è in attività è perché quel Dio è arrabbiato. Per placare la sua ira si pensa che sia necessario il sangue degli albini. Per noi comincia l'angoscia, la notte diventa pericolosa". L'ultima eruzione risale al 2007 e quell'anno Stephane ha deciso di scappare per sfuggire alla caccia agli albini,  duemila persone circa in tutto il Paese,  che ogni giorno scontano la pena di avere poca melanina, di essere ipovedenti. Bianchi fra i neri. Insulti per strada, aggressioni fisiche e rapimenti quando arriva il buio: "Siamo considerati una razza inferiore, ma al tempo stesso si crede che le parti del nostro corpo abbiano virtù terapeutiche. Siamo demoni ma anche potenziali salvatori". 

martedì 23 agosto 2011

Il genocidio dei cattolici nella Spagna rossa.

In questi tempi, quando da più parti si accusa  Franco di ogni nefandezza durante la guerra civile spagnola accomunando ai falangisti i loro alleati italiani e tedeschi, mi è capitato di leggere sul Corsera di alcuni giorni fa, un articolo a firma di Vittorio Messori, storico della Chiesa e scrittore di fama mondiale, a proposito del film sulla vita di Escrivà de Balaguer, il fondatore dell'Opus Dei,  di prossima uscita nelle nostre sale.
Il film è opera di Roland Joffé, un ebreo di origine francese nato in Inghilterra che si dichiara agnostico, ha avuto simpatie per i comunisti e cambiato parecchie mogli. Scrive Messori: "Un merito del regista, ci pare, è non aver nascosto la volontà, da perte delle sinistre spagnole, di genocidio del clero, massacrato solo perchè cattolico. La parola "genocidio" non è eccessiva: nella diocesi di Barbastro, città natale di don Escrivà, l'88 per cento dei sacerdoti fu ucciso, nei modi più barbari, nelle prime settimane di guerra civile e la mattanza si estese ai laici se "amici dei preti". Le suore furono stuprate, spesso da decine di "compagni", fino alla morte. Le salesiane di Madrid furono massacrate dalla canaille, cui era stato fatto credere che, alle bambine dei loro oratori, davano caramelle avvelenate. Alla fine questo il bilancio: uccisi 4.184 sacerdoti diocesani, 2.365 frati, 2.830 religiose, nonchè 13 tra vescovi e arcivescovi. Inoltre decine di migliaia di di laici cattolici. Alcuni furono crocifissi alle porte delle loro chiese, impalati, legati a bocche di cannone, squartati. Anche i genitori furono puniti per la colpa di avere tali figli: la madre di un gesuita fu soffocata cacciandole un crocifisso nella gola, molti furono bruciati vivi, altri gettati davanti ai tori, con gli assassini in divisa ad acclamare nell'arena. Papa Wojtyla ha proceduto alla beatificazione in massa di alcune centinaia di questi martririzzati solo perchè cristiani. Nessuna chiesa, nelle zone tenute dai governativi, scampò all'incendio o, almeno, alla devastazione: scomparve così la metà del patrimonio artistico spagnolo. 
Quanto ai franchisti, non furono di certo cherubini nè serafini, : lavorarono anch'essi molto con i plotoni di esecuzione ( sia durante che, ancor più grave, dopo la guerra ) e fucilarono essi pure dei preti: ma per ragioni politiche non religiose. Si trattava di alcuni sacerdoti baschi, militanti per la sevessione dalla Spagna.
Sfidando la rimozione attuale di quei massacri ( i più sanguinosi dopo quelli della Francia del Terrore ) l'ebreo agnostico Joffè fa certamente opera politicamente scorretta, dunque meritoria."

martedì 2 agosto 2011

La schiavitù nel Tigrè

Pochi sanno che la schiavitù, tanto deprecata oggi da tutti governi democratici, era comunemente praticata in quei paesi che questi governi difendevano dall'aggressione fascista negli anni trenta, ma ancor di meno sono quelli che sanno cosa fece il governo italiano subito dopo la fine della guerra di Abissinia. Questo manifesto bilingue ( italiano e amarico ) stampato il 14 ottobre 1935 ad Adua e firmato da Emilio De Bono, è famoso in tutto il mondo anche se poco noto dalle nostre parti.  Rappresenta il primo atto ufficiale del governo italiano che con esso proclamava, forse per primo in europa, che "Dove sventola la bandiera d'Italia ivi è la libertà. Perciò nel vostro paese la schiavitù , sotto qualunque forma, è soppressa." 
Gli Amara, nelle loro conquiste, hanno spesso modificato i nomi delle popolazioni sottomesse con un nome simile ma con significato dispregiativo, o addirittura con un nome che esprimesse lo stato di schiavitù. La provincia più settentrionale dell’Etiopia, che oggi è uno stato della Federazione Etiopica, si chiama Tigrai. Molti studiosi continuano a chiamarla Tigré (che è il nome con cui gli amara chiamano i tigrini) non sapendo che tigré in amarico significa “sotto il mio piede”, cioè “servo”. Tigrè invece era una popolazione dell’Eritrea settentrionale, con una struttura sociale in cui i tigré (servi) erano governati da un’aristocrazia di capi detti sciumaghillè (anziani).

giovedì 21 luglio 2011

Theo Saewecke: dalle SS alla CIA

Durante una ricerca in relazione ad un documento rilasciato nel 1944 dall'Aussenkommandos der Sicherheitspolizei Mailand ( Comando della Polizia di Sicurezza a Milano ) mi sono imbattuto in una storia incredibile che ha come protagonista l'SS-Huptsturmfuehrer Theodor Emil “Theo“ Saevecke che ne era il comandante e che ripropone il mistero di come alcuni criminali nazisti siano riusciti a sfuggire ad ogni castigo. 
Theodor Emil “Theo“ Saevecke era nato ad Amburgo il 23.3.1911, secondogenito dell'ex sottufficiale di carriera Kurt Saevecke e di sua moglie Maria, nata Sattelberg. Dopo aver frequentato la Realschule a Entin, il Realgymnasium a Parchim e a Ludwigslust e l'istituto Katerineum a Lubecca, nel febbraio del 1930 entra al liceo. Saevecke sente però il fascino del mare e, dopo aver lavorato per tre mesi «come volontario» nei cantieri navali Neptun di Rostock e aver successivamente seguito un corso trimestrale all'Istituto nautico di Finkenwürder, il 19 dicembre 1930 corona il suo sogno e, «cadetto della marina mercantile», si imbarca sul quattro alberi Padua di Amburgo a bordo del quale rimane fino al 20 giugno 1932 toccando per due volte le coste dell'America del sud.

domenica 17 luglio 2011

Il Lapplandschild, l'ultima decorazione tedesca.


Il "Lapplandschild" ( Scudetto di Lappland ) fu l'ultima decorazione ufficiale tedesca rilasciata durante la seconda guerra mondiale. Poco conosciuta e anche poco amata dai collezionisti di militaria tedesca, forse per la varia tipologia degli esemplari offerti e per i dubbi sulla loro originalità, ci racconta invece di uno straordinario ed inusuale scenario di guerra svoltosi nel lontano nord a cavallo del circolo artico, del quale poco si sa e poco si è parlato. 
Negli ultimi mesi del 1944, la 20.Gebirgsarmee, comandata dal Generaloberst Lothar Rendulic, che raccoglieva tutte le forze tedesche presenti in Finlandia e Norvegia, doveva contemporaneamente affrontare tre missioni quasi impossibili:

venerdì 8 luglio 2011

La Storia ( e la Vergogna ) siamo noi!

Che vergogna! Ho appena visto questo spregevole filmato propagandistico e demagogico, degno della peggiore seconda repubblica con accuse incredibili e assolutamente non provate a Mussolini ed alla sua famiglia. Tutti conosciamo quale sia stata la la vita di Donna Rachele e dei suoi figli, con la sola pensione statale di reversibilità derivantele dalla carica ufficiale del defunto marito. Chi conosce Livorno sa come sia vissuta negli anni postbellici Edda Ciano che avrebbe potuto contare sulle cospicue ricchezze della famiglia Ciano, accumulate da Costanzo Ciano, medaglia d'oro della prima guerra mondiale e senatore del Regno, e non certo da Galeazzo che, se ha speso ha speso del suo.
Vorrei che qualcuno mi mostrasse i documenti dai quali risultano le immense ricchezze accumulate dai gerarchi fascisti e, ovviamente, passate ai loro discendenti dopo la fine della guerra: Balbo, Pavolini, Buffarini Guidi, Starace, Muti, Vidussoni, Scorza, ecc. Non mi risulta che nessuna di queste famiglie sia venuta alla ribalta per le sue ricchezze dal 1945 ad oggi. Riporto qui un pezzo tratto da un articolo del giornalista e scrittore Filippo Giannini che mi sembra ben rispondere a Minoli e alla sua Storia ( sua e non nostra ): "A guerra terminata nel bel mezzo della  caccia al fascista e delle inquisizioni cui erano sottoposti, lo Stato democratico e finalmente libero (di rubare!) aprì un’inchiesta a carico di 5005 (cinquemila e cinque) gerarchi e alti funzionari del mai sufficientemente deprecabile infausto Ventennio, inchiesta tendente ad accertare quanto i fascisti avessero rubato. L’operazione di indagine andò avanti per un paio di anni. Ma a farsa si somma farsa. Come scritto non si trovò nulla di illegale; un bel giorno apparve su tutti i giornali (politicamente corretti) la notizia: Trovato il tesoro di Italo Balbo; è nascosto in una cassetta di sicurezza in una banca. Il giorno deciso dagli inquirenti per aprire la cassetta inquisita furono convocati operatori, giornalisti, il fior fiore dei politici e, con gran pompa, la famigerata cassetta fu aperta; obbrobrio, il tesoro era una sciarpa: la sciarpa Littorio.
   Dopo di che, dato che c’è un limite per il ridicolo anche per la Repubblica nata dalla Resistenza, l’inchiesta sui 5005 (cinquemila e cinque) indagati, zitti, zitti, gli inquisitori chiusero le indagini e accantonarono l’inchiesta."

martedì 5 luglio 2011

Il massacro di Gela

Era tanto che volevo scrivere di questi fatti dei quali avevo saputo leggendo un articolo apparso sul Corriere della Sera qualche anno fa, ma che non riuscivo più a trovare. Grazie ad una segnalazione di Fabrizio Carloni, l'autore di quell'articolo, che ha pubblicato anche un'intero volume sullo sbarco alleato in Sicilia nel 1943, ho reperito tutte le fonti d'informazione necessarie.
Inizio riportando quando scritto da Carloni nel suo articolo: "Nel corso di Husky, nome in codice dello sbarco alleato in Sicilia del luglio 1943, le truppe statunitensi, comandate dal generale George Patton, trucidarono numerosi civili e molti militari che si erano arresi. Le stragi dei prigionieri italiani a Biscari, a sud di Caltagirone, rivelate dallo storico statunitense Carlo D'Este, non furono dunque una disgraziata eccezione.
Una tragedia simile di cui mai si è scritto o parlato, si consumò a 8 chilometri da Gela, sulla strada per Vittoria, verso le 7 di mattina del 10 luglio, giorno dello sbarco. In questa località, detta Passo di Piazza, i carabinieri reali avevano costituito un posto fisso in un casale rurale. Era in posizione strategica perchè i militari potessero vigilare la linea ferroviaria che correva parallela al mare. Erano una quindicina e, al momento dello sbarco due erano in pattuglia. Gli altri furono svegliati dal fuoco martellante dell'artiglieria; tutto intorno scendevano centinaia di paracadutisti americani."
L'articolo continua con il racconto di uno dei militari sopravvissuto,

sabato 2 luglio 2011

After the Reich ( I crimini di guerra degli alleati )

Lo storico inglese Giles MacDonough ha dato alle stampe uno scioccante volume dal titolo "After the Reich: The Brutal History of Allied Occupation " che, forse per la prima volta, documenta con assoluta precisione storica quanto accaduto alla Germania sconfitta e ai suoi cittadini, militari e civili.
Mark Weber, dell'Institute for Historical Review, ha scritto una recensione, tradotta in italiano da Andrea Carancini, che qui vi ripropongo. Il libro è acquistabile su Amazon.com.


"Molte persone accettano l'idea che, considerati i crimini di guerra dei nazisti, un certo grado di violenza vendicatrice contro i tedeschi fosse inevitabile e forse persino giustificata. La risposta normale ai rapporti sulle atrocità commesse dagli Alleati è che i tedeschi se le meritarono. Ma, come MacDonogh dimostra, le spaventose crudeltà inflitte ad un popolo tedesco totalmente abbattuto, andarono decisamente oltre l'immaginabile. Egli calcola che circa tre milioni di tedeschi, sia militari che civili, morirono in modo ingiustificato dopo la fine ufficiale delle ostilità.


Di questi, un milione erano uomini che venivano tenuti come prigionieri di guerra, la maggior parte dei quali morirono in mano ai sovietici (dei 90.000 tedeschi che si arresero a Stalingrado, ad esempio, solo 5.000 tornarono in patria). Ancora meno conosciuta è la storia delle molte migliaia di prigionieri tedeschi che morirono - in mano agli americani e agli inglesi nel modo più infame, in spaventosi campi di prigionia lungo il Reno, senza alcun riparo e con quantità di cibo irrisorie. Altri, più fortunati, vennero impiegati come



lunedì 27 giugno 2011

Grande stampa e cattiva informazione (2)

Il mio post precedente ha sollevato un bel polverone! Ovviamente in senso positivo. Decine le mail ricevute e parecchi i commenti lasciati direttamente sul blog. Sono felice di aver così socchiuso uno dei cassetti dell'armadio della Storia, lasciando intravedere alcune verità poco conosciute. Tra le molte risposte anche quelle di chi ha fornito nuove informazioni correggendo anche alcune inesattezze del mio post.
Ritengo quindi doveroso metterle a conoscenza dei lettori nell'ordine con cui mi sono pervenute.


L'amico Annibale è stato il primo ad intervenire: "Salve, confermo che la foto riportata nell'articolo è stata scattata in occasione del salvataggio delle opere d'arte portate a Roma da Montecassino e poi ricoverate in Vaticano. Alcuni dei camion sembra non siano mai arrivati a Roma ma inviati verso l'Umbria dove almeno uno sarebbe sparito. Correggo però l'informazione da te data: la foto è stata scattata non in Vaticano ma sotto palazzo Venezia perchè è lì insulsamente che i Tedeschi schierarono i camion con tutte le opere d'arte per mostrarle a giornalisti, cineoperatori e fotografi. In una dichiarazione a me riportata da uno dei protagonisti del salvataggio di altre opere d'arte nel basso Lazio (ma non a Montecassino) l'esposizione in campo aperto, com'era piazza Venezia, nell'inverno del '44, fu molto criticata perchè sarebbe bastato un solo aereo per colpire ed incendiare i camion schierati un accanto all'altro in pieno giorno. Ciò non toglie che i Tedeschi rubarono altrove altre opere d'arte ma non in questa occasione.   Buona giornata."


Dean mi ha fornito invece alcune informazioni di prima mano proprio là dove Annibale si era fermato:
"Ciao, mi chiamo Dean, ho letto l'articolo e posso confermarti che hai ragione sulla cattiva informazione.....io abito a Spoleto la citta' dove i tedeschi hanno portato una parte del tesoro di Montecassino ( 20 camion , come confermato proprio quest'anno dall'Abate dell'abazia in una mia visita al monastero benedettino ) e guarda caso io abito proprio nella villa dove c'era il comando Paracadutisti Hermann Goering ( Villa Marignoli). I camion erano parcheggiati nel vialone di lecci e una parte del tesoro era stata scaricata nella villa  (da racconti dei vecchi di allora la villa ne era piena zeppa) e tutto cio' che ti racconto lo si puo' trovare anche nei libri che vendono all'abbazia. Ti saluto e in allegato ti mando la foto di casa." 

Lorenzo ha completato tutte queste informazioni: "Tutto vero quanto da lei affermato nel blog, le foto non sono quelle giuste. Tuttavia le segnalo questo articolo :
 http://digilander.libero.it/historiatris/piccolo.htm nella parte dove dice :
le 600 casse consegnate il 5 gennaio 1944 facevano parte dell'ultimo convoglio partito da Montecassino il 3 novembre 1943 (i primi erano partiti rispettivamente il 17 e il 19 ottobre precedenti e consegnati allo Stato italiano l'8 dicembre 1943) con le opere della Galleria Nazionale e del Museo archeologico di Napoli; settantamila documenti dell'Abbazia, le reliquie di San Benedetto e di Santa Scolastica, ossia quanto restava delle loro ossa.
Sennonché le casse con i tesori napoletani non si fermarono a Roma, ma proseguirono verso nord e il Capitano della "Hermann Goering" Maximilian Becker (che con Schlegel aveva organizzato il trasferimento dei tesori da Montecassino) ebbe conferma dei propri sospetti circa un "interessamento" privato di alcuni vertici del nazismo riferiti al tesoro stesso. Becker seppe quindi che i camion avevano proseguito verso Spoleto e si precipitò nella città umbra, dove si rese conto di aver avuto ragione ad allarmarsi quando vide le casse aperte e intorno ad esse aggirarsi un incaricato del Reichsmarschall Goering, venuto dalla Germania per prelevare alcuni oggetti da inviare al capo della Luftwaffe.
E poi: Le casse di Spoleto, dopo ulteriori sollecitazioni anche da parte di monsignor Montini, allora sostituto segretario di Stato, vennero consegnate il 5 gennaio 1944 (ed è la consegna di cui si parla nell'articolo de "IL PICCOLO" mostrato in questa pagina). Mancavano due autocarri di quanti erano partiti dall' Umbria. Fu detto che erano fermi per guasti e che sarebbero arrivati il giorno successivo. Non arrivarono mai. Con gli autocarri non arrivarono 15 casse che avevano proseguito il viaggio fino a Berlino."

A parte quest'ultima informazione mi viene da chiedermi: e se i tedeschi avessero lasciato tutto dove stava ( magari meno i due camion dirottati a Berlino ) cosa sarebbe successo ai nostri tesori artistici una volta arrivati inglesi, americani, marocchini, ecc.?

mercoledì 22 giugno 2011

Grande stampa e cattiva informazione



A pagina 39 del Corriere di oggi sono incappato in un interessante articolo sui tesori artistici razziati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nelle foto che lo accompagnavano però, c'era qualcosa che non mi convinceva. La foto dei soldati tedeschi che esibiscono un grande quadro come loro trofeo, davanti ad una garitta, con la didascalia sotto la foto di Maria Altmann "...a sinistra: soldati tedeschi con un quadro trafugato a Roma", non mi convinceva. Lo credo bene! Quella foto è stata sì scattata a Roma, come altre nell'occasione, ma si riferisce alla consegna dei tesori artistici dell'Abbazia di Montecassino al Vaticano dopo che erano stati messi in salvo dagli uomini della "Panzer-Division Hermann Goering" prima del bombardamento alleato. Quando gli alleati avanzarono verso Nord, avvicinandosi all'abbazia di Monte Cassino, un'unità operativa della divisione, al comando dell'Oberstleutnant Julius Schlegel, offrì ai monaci il proprio aiuto per portare in salvo i tesori artistici che l'abbazia conservava da secoli. I monaci accettarono e così tesori di inestimabile valore artistico furono trasportati a Roma con i mezzi motorizzati della divisione e consegnati al Vaticano. Nella foto che ho aggiunto si vede chiaramente il camion tedesco, davanti al Vaticano, che sta scaricando i preziosi dipinti.
Ecco un altro esempio di disinformazione da parte della Grande Stampa i cui giornalisti, non so se per pigrizia o ignoranza, preferiscono seguire i luoghi comuni piuttosto che accertarsi della realtà dei fatti. E si che queste foto fanno parte del Bundesarchiv tedesco e riportano le didascalie giuste!

lunedì 23 maggio 2011

Bombardati dai "liberatori"

Non sono mai riuscito ad accettare come "effetti collaterali" inevitabili i terribili bombardamenti effettuati dagli alleati sul nostro territorio dal 1943 al 1945 e soprattutto a capire la reazione dei "bombardati" nei loro confronti. Oggi, leggendo il libro di Giampaolo Pansa "I vinti non dimenticano", i miei dubbi si sono improvvisamente riaccesi tanto da spingermi a condividerli con i miei lettori su questo blog.
Come dice Pansa, è una storia di stragi che non viene mai ricordata da chi è abituato ad un racconto fazioso della guerra oggi imperante grazie agli "storici di regime", cioè di quel regime culturale messo su dai professionisti dell'antifascismo. "Quelli che manovrano sempre la famosa lavagna dove tutti i buoni stanno da una parte e tutti i cattivi dall'altra. Questi signori rammentano di continuo la più piccola rappresaglia tedesca o fascista, ma dimenticano quanti morti hanno fatto gli aerei americani e inglesi, bombardando l'Italia per cinque anni. Anche le loro vittime, tantissime, meriterebbero di essere ricordate."
Spesso il destino si diverte a combinare tragicamente avvenimenti di segno opposto nello stesso momento: il 7 aprile 1944, sull'Appennino ligure-alessandrino cominciarono le fucilazioni dopo il

mercoledì 9 marzo 2011

Le bugie di Gheddafi

Le ridicole farneticazioni di questi ultimi giorni da parte di Gheddafi sul fatto che i libici abbiano sconfitto gli italiani, alle quali nessun media nazionale ha opposto la verità storica su quegli ormai lontani avvenimenti, merita che si faccia un pò di chiarezza. 
Contrariamente a quello che afferma Gheddafi, non furono i libici a sconfiggere gli italiani, bensì il contrario seppur con mezzi crudeli e spesso inumani come accadeva in tutte le campagne di colonizzazione condotte dai paesi europei. I francesi in Algeria e in Marocco, gli inglesi in Egitto, nel Sudan e in Sud Africa, gli spagnoli nei loro possedimenti marocchini. Le efferatezze sui soldati spagnoli fatti prigionieri dai guerriglieri appartenenti alle bande di Abd el Krim, spinsero numerosi membri delle Cortes a chiedere che l’esercito e l’aviazione usassero gas tossici di ogni tipo per reprimere la ribellione nel Rif marocchino. I britannici, del resto, nel 1919 avevano usato fumi di arsenico a Murmansk, nella penisola di Cola, contro truppe dell’Armata Rossa e gas di iprite e fosgene nel ’20 in Pakistan e Afghanistan contro le tribù di confine. L'unica differenza è che fino ad oggi non si sono mai visti libri e giornali francesi, spagnoli o inglesi che si autodenunciavano per l’uso di gas mentre noi italiani ci autoaccusiamo di aver usato l'iprite nella guerra d'Etiopia e chiediamo continuamente scusa a tutti per i crimini "fascisti".     

L’invasione della Libia fu preparata dall’Italia fin dal 1887 (Mussolini aveva quattro anni). Forti pressioni per questa impresa vennero principalmente dalle banche alla testa delle quali era il Banco di Roma che aveva investito notevoli capitali proprio in Libia, contando sulla sua trasformazione in colonia. Ma a favore della spedizione troviamo anche i socialisti, i sindacalisti rivoluzionari, nonché i cattolici. La decisione della guerra contro la Turchia, che allora dominava la Libia fu presa dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, nel novembre 1911 ed il 25 di quel mese il dado fu tratto, e fu guerra. Violente dimostrazioni contro quell’impresa si svolsero principalmente in Romagna, guidate da Mussolini. Però, evviva la democrazia, la dichiarazione di guerra, come consentiva l’art. 5 dello Statuto, fu inviata senza l’approvazione del Parlamento il quale, in vacanza dal luglio, riaprirà solo il 22 febbraio 1912.    Il contingente italiano, dopo aspri combattimenti, occupa i principali centri costieri della Tripolitania e della Cirenaica; ma non va oltre. L’interno libico rimarrà, per almeno due decenni, in mano di bande locali, spesso in lotta fra loro.    
Ma, c’è sempre un ma, anche se non ancora in Camicia nera: un attacco turco a Sciara Sciat provoca quasi 400 morti fra i bersaglieri italiani. Seguirà da parte italiana una feroce rappresaglia. Ma quali scuse ha portato Gheddafi per le atrocità commesse da parte dei suoi concittadini a danno degli italiani? Circa le atrocità di cui furono vittime i soldati italiani caduti nelle mani dei turchi-libici durante la conquista di Tripoli, così scriveva il Journal: "Ho veduto in una sola moschea diciassette italiani crocifissi. Sono stati inchiodati al muro e morirono a fuoco lento… A un ufficiale furono cuciti gli occhi. I cadaveri erano mutilati in modo indicibile… Nel cimitero di Chari vedemmo cinque soldati sepolti sino alle spalle; le teste emergevano dalla sabbia, nera del loro sangue" E il giornalista del Matin: "Nel villaggio di Henni e nel cimitero arabo era stato operato un vero macello… Si sono loro tagliati i piedi, strappate le mani: vi sono stati crocifissi. Un bersagliere ha la bocca squarciata fino alle orecchie".  
E veniamo alle imprese di Omar al Mukhtar con la cui foto appesa sul petto Gheddafi si è presentato a Berlusconi che gli baciava la mano. 
Nel 1980 un film, "Il leone del deserto", di coproduzione Usa e Siria, fu dedicato alla lotta di liberazione libica contro il colonialismo italiano. Il film fu parzialmente finanziato con 35 milioni di dollari da Muammar Gheddafi, il quale chiese l'inclusione di una scena storicamente inesatta che mettesse in cattiva luce i Senussi, in modo da separare la figura di al-Mukhtar, suo riferimento ideale, da quella di re Idris I, capo dei Senussi e cacciato dalla rivolta di Gheddafi. 
Il film è stato ripetutamente trasmesso dalla televisione libica, per diffondere la visione storica di Gheddafi il quale è rappresentato da bambino presente all'impiccagione di al-Mukhtar. Questa circostanza é un mero falso , in quanto Gheddafi nacque nel 1942 , vale a dire alcuni anni dopo la morte di al-Muktar. e le autorità italiane hanno vietato la proiezione del film nel 1982 perché, nelle parole del primo ministro Giulio Andreotti, «danneggia l'onore dell'esercito». Ora è necessario ricordare che la pacificazione della Libia era una delle tante eredità negative lasciate al fascismo dai governi precedenti. 
Omar al Mukhtar nasce in un villaggio della Marmarica orientale intorno al 1862, in un ambiente fortemente influenzato dalle regole del Corano. Si fa notare sia per la sua attitudine negli studi coranici, sia per il suo temperamento volitivo, ma anche per la sua volontà nel combattere prima i turchi, poi gli invasori italiani. A 40 anni è nominato capo della Zawia (convento e centro d’azione) e tornato nella natia Marmarica ha la spiacevole sorpresa di vedere le tribù sottomesse al governo italiano. Da allora in poi, sempre nel nome di Dio Altissimo e Misecordioso, punisce con spietata durezza chiunque accetti di collaborare con le autorità italiane. A causa della guerra 1915-1918 il territorio, specialmente quello interno, vide le truppe italiane ridursi notevolmente per essere trasferite in altri fronti, così che bande sempre più numerose poterono spadroneggiare nel territorio imponendo decime alle popolazioni, accanendosi, in particolare contro coloro che mostrano una qualsiasi simpatia verso l’Italia. Omar al Mukhtar ha una parte preminente in queste azioni intimidatrici  e punitive, precedute e seguite sempre da atti di inaudita ferocia. Fare un elenco del terrore seminato dal Leone del deserto e da altre bande simili è semplicemente impossibile. L’attività di Omar al Mukhtar assume connotati di assoluta preminenza nel biennio 1929-1931, di conseguenza il Governo italiano ritenne indispensabile pacificare tutta la Libia. Badoglio e Graziani, incaricati allo scopo, reputarono necessario sottrarre il territorio all’influenza dei capi locali.Quindi giustizia e perdono per i sottomessi, severità implacabile per i ribelli. Negli anni ’29, a seguito di una serie di contatti con alti ufficiali italiani, sembrava che un accordo sulla pacificazione fosse a portata di mano, ma a ottobre di quell’anno al Mukhtar ordinò l’attacco ad una pattuglia di zapié (carabinieri indigeni) comandati dal brigadiere Stefano Ramorino, accorsa per riparare la linea telefonica, appositamente sabotata in località Gars Benigden proprio per realizzare l’agguato. L’eccidio compromise qualsiasi ulteriore tentativo di accordi e ravvivò la guerriglia e la contro-guerriglia. Nei primi quattro mesi del 1931 il ritmo delle razzie e degli agguati assunsero proporzioni non più tollerabili. Fu in questo contesto che Graziani concepì e diresse la più grande e complessa operazione sahariana mai prima compiuta. Obiettivo finale della manovra: l’oasi di Kufra, nel più profondo sud desertico, conquistata, dai reparti cammellati, dopo una massacrante marcia nel deserto. Omar al Mukhtar,  ormai stanco, sfiduciato, vecchio e abbandonato dai suoi fidi, venne catturato, ai primi di settembre del 1931 nella zona di Uadi el Kuf, da una pattuglia di Sawari. Dopo la cattura, accusando di essere stato abbandonato al suo destino, stoicamente aggiunse: "Se mi avete preso è soltanto per volontà di Allah. Ora fate di me quel che volete".
   Graziani, d’accordo con Badoglio e con il Ministro delle Colonie De Bono, convocò il Tribunale militare speciale che condannò al Mukhtar a morte per i reati commessi. Il giorno dopo, alle 9 nell’assolata piana di Soluk, l’esecuzione venne consumata in un cupo silenzio. Nel gennaio del 1932 il maresciallo Badoglio comunicò a Roma, non senza orgoglio, che dopo oltre vent’anni la colonia era finalmente pacificata. Un fatto è certo, scomparso Muktar – cui fece seguito la coraggiosa liberazione in massa degli ex ribelli – non un solo colpo di fucile è stato più esploso contro gli italiani, razzie e saccheggi finirono d’incanto e i remoti territori del deserto tornarono alla serenità. Il Duce si recò in Libia dal 12 al 21 marzo 1937, per inaugurare ospedali, strade, edifici pubblici, fattorie. Anziché essere preso a fucilate fu accolto dai nativi con un entusiasmo incontenibile, tanto che gli fu donata la Spada dell’Islam, in oro massiccio e intarsiata con pietre preziose, alto simbolo di riconoscenza. Nel corso delle sua visita nelle varie località libiche l’entusiasmo dei coloni italiani e della popolazione locale era veramente esaltante. Nell'oasi di Bugara il duce a cavallo alza la spada verso il cielo e, dopo avere promesso di «tenerla con sé fra i ricordi più cari come simbolo di forza e di giustizia», dichiara solennemente che l'Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell'Etiopia "pace, giustizia, benessere e rispetto delle leggi del profeta" e si proclama "protettore dell'Islam"Un’altra iniziativa, accuratamente taciuta dai media, unica del genere per i Paesi colonizzatori, fu il provvedimento con il quale con Regio Decreto veniva riconosciuta una cittadinanza italiana speciale per i nativi musulmani delle quattro province libiche che facevano parte integrante del Regno d’Italia e che diventavano cittadini italiani a tutti gli effetti ( altro che le attuali leggi anticlandestini ). Descrivere in queste poche righe le opere compiute dal lavoro italiano fascista, a dispetto del dittatorello libico, risulta impossibile, ma solo per motivi di spazio. 
L’occupazione italiana dell’Africa del nord durò ancora dieci anni. Nel maggio del 1943, dopo la resa del corpo italo-tedesco allora sotto il comando di Jürgen von Armin (il feldmaresciallo Rommel era rientrato in Europa in marzo), la Libia fu posta sotto l’amministrazione militare anglo-francese prima di diventare, nel 1951, il primo stato sahariano indipendente.