giovedì 21 luglio 2011

Theo Saewecke: dalle SS alla CIA

Durante una ricerca in relazione ad un documento rilasciato nel 1944 dall'Aussenkommandos der Sicherheitspolizei Mailand ( Comando della Polizia di Sicurezza a Milano ) mi sono imbattuto in una storia incredibile che ha come protagonista l'SS-Huptsturmfuehrer Theodor Emil “Theo“ Saevecke che ne era il comandante e che ripropone il mistero di come alcuni criminali nazisti siano riusciti a sfuggire ad ogni castigo. 
Theodor Emil “Theo“ Saevecke era nato ad Amburgo il 23.3.1911, secondogenito dell'ex sottufficiale di carriera Kurt Saevecke e di sua moglie Maria, nata Sattelberg. Dopo aver frequentato la Realschule a Entin, il Realgymnasium a Parchim e a Ludwigslust e l'istituto Katerineum a Lubecca, nel febbraio del 1930 entra al liceo. Saevecke sente però il fascino del mare e, dopo aver lavorato per tre mesi «come volontario» nei cantieri navali Neptun di Rostock e aver successivamente seguito un corso trimestrale all'Istituto nautico di Finkenwürder, il 19 dicembre 1930 corona il suo sogno e, «cadetto della marina mercantile», si imbarca sul quattro alberi Padua di Amburgo a bordo del quale rimane fino al 20 giugno 1932 toccando per due volte le coste dell'America del sud.
Poi con un altro quattroalberi, il Primawall, partecipa a una traversata dimostrativa fino in Australia. Infine con il piroscafo Anna Cords naviga tra Inghilterra, Irlanda, Francia, Africa, Russia, Danimarca e Olanda finché il 27 marzo 1934 - per una malattia allo stomaco, dirà nel 1977- abbandona per sempre la vita sugli oceani e il 1° ottobre, realizzando finalmente quella che si rivelerà essere la sua autentica vocazione, entra nella polizia criminale di Lubecca come aspirante commissario.
Iscrittosi al partito nazionalsocialista il 1° febbraio 1929, ha già tutte le carte in regola per essere ben accetto tra le forze dell'ordine hitleriano. Nel 1926 adolescente, ha aderito alla Schilljugend dell'Organizzazione Rossbach diventando dirigente del gruppo di Parchim per poi passare il 15 dicembre 1928, come «allievo in seconda» nelle Sturmabteilungen (SA) di Lubecca nelle cui file milita «attivamente», fino al 1938. Nel frattempo, nel 1937, frequenta la scuola ufficiali della Sicherheitspolizei (la polizia di sicurezza) e «dopo un solido collaudo» viene assegnato alla Direzione della polizia criminale di Berlino (Kriminalpolizei Leitstelle) dove diventa capo del reparto incendi e catastrofi, occupandosi anche della sezione omicidi. 
Allo scoppio della guerra, nel settembre 1939 viene immediatamente inviato a Poznan, il maggiore centro di quella parte della Polonia occupata direttamente annessa al Reich e, al 25 giugno 1940 , è direttore della divisione omicidi ricoprendo contemporaneamente il grado di capitano SA nel Führerkorps del I reggimento H. E. Maikowski di Berlino.
Non si sa esattamente quando Saewecke entra nelle SS ma lo è già quando, richiamato nell’estate 1940 a Berlino, viene in novembre mandato a Tivoli dove frequenta un breve corso di polizia coloniale e nell’aprile 1942 è trasferito in Libia dove passa un anno collaborando con la Pai, la polizia coloniale italiana. Da qui passa in Tunisia dove, dal novembre 1942, rastrella ebrei da impiegare in lavori di carattere militare richiesti dalla Wehrmacht. In realtà Saewecke non opera affatto nella Wehrmacht ma nello «Einsatzkommando della polizia di sicurezza e dello SD Afrika», a capo del quale è Walter Rauff mentre lui ne è il diretto sostituto. Il 9 maggio 1943, quando il fronte africano crolla, Rauff e il suo vicario devono fare le valige ma la carriera continua e Saevecke, dopo una breve permanenza in Corsica, viene inviato in Italia dove i tedeschi, dopo la defenestrazione di Mussolini del 25 luglio, preparano le strutture poliziesche in previsione della occupazione militare. Così, in virtù dei meriti acquisiti per le dimostrate capacità, Saevecke viene inviato in agosto a Livorno per poi guadagnarsi un posto di maggior prestigio: all’indomani dell’8 settembre 1943 è a Milano come comandante la polizia e il servizio di sicurezza.

Saevecke, primo da sinistra in seconda fila,
fotografato al seguito di Mussolini
con vicino Walter Rauff
Riproducendo il modello organizzativo già collaudato nel Reich e nei paesi invasi, Himmler inviò come suo plenipotenziario l'Obergruppenführer (generale di corpo d'armata) Karl Wolff con la carica di comandante supremo delle SS e della polizia. Carica che tuttavia non lo obbligava «ad immischiarsi nell'attività ‘ordinaria’ degli uffici distaccati delle direzioni superiori SS», anche per non «entrare in conflitto con gli uffici principali delle SS, i quali, a loro volta, avevano inviato nei territori occupati propri rappresentanti regionali». Uno dei più importanti tra questi ultimi era il generale Wilhelm Harster, trasferito in Italia come comandante la polizia e il servizio di sicurezza dopo aver ricoperto il medesimo incarico in Olanda, dove si era distinto nella deportazione degli ebrei.
Lo SD era in sostanza «la centrale informativa più completa della quale disponesse l'apparato tedesco in Italia» e chi, come Rauff, doveva rispondere del proprio operato a superiori come Harster e Kaltenbrunner, l'uomo che dal giugno 1942 aveva sostituito Heydrich alla testa dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, non poteva permettersi di avere per diretto collaboratore, a capo di un comando importante e delicato come Milano, un ufficiale che non offrisse la più assoluta garanzia di efficienza e - si tratta di SS - fedeltà ideologica. Il capitano Theo Saevecke apparteneva a quello che in periodo bellico era diventato il più potente dei servizi e dirigeva non solo il comando che operava nel cuore economico e politico dell'Alta Italia, ma aveva alle proprie dipendenze anche gli Aussenposten di Bergamo, Pavia e Novara, vale a dire quindi una discreta porzione di Lombardia, cui si aggiungeva una fetta di Piemonte tutt'altro che tranquilla dal punto di vista della guerriglia partigiana. Documenti di fonte tedesca 
ttestano che Saevecke resse l'Aussenkommando di Milano a partire dal 13 settembre 1943.


Non esiste più da tempo, ma allora l'albergo Regina e Metropoli si trovava in pieno centro, un palazzo signorile a duecento metri da piazza del Duomo con un ingresso in via Santa Margherita 6 e un altro in via Silvio Pellico 7. Elegante e spazioso, l'edificio venne immediatamente requisito e,
circondato da barriere di filo spinato, casematte in cemento armato e illuminato di notte da potenti cellule fotoelettriche, diventò la sede del comando interregionale di Rauff e di quello interprovinciale affidato a Saevecke. Sembra che Rauff, anche lui come Heydrich ex ufficiale di marina espulso «perché riconosciuto colpevole di atti di violenza carnale», non corrispondesse proprio alla classica figura dell'ufficiale e gentiluomo: volgare, di carattere violento con i subalterni, assillato «da una morbosa propensione per le donne», non valeva nemmeno granché come poliziotto. Theo Saevecke era il contrario di Rauff: poliziotto di razza e di professione, era di notevole intelligenza e, nel complesso, riuscì a svolgere il suo non facile compito senza macchiarsi, almeno apparentemente, di delitti. Saevecke, per sminuire l'entità dell'azione repressiva svolta a Milano, cercherà di limitare la sfera della sua attività all'ambito investigativo e sosterrà di non aver avuto a disposizione che dieci uomini, un numero nemmeno sufficiente ad operare arresti, ma una ricostruzione ufficiale postbellica di fonte tedesca gliene attribuisce esattamente il doppio mentre un rapporto germanico, redatto subito dopo la resa, parla di venti ufficiali, sessanta sottufficiali e venti soldati più un'altra cinquantina, forse italiani addetti alla sorveglianza.
L'articolazione interna degli uffici dell'AK Mailand ricalca quella della centrale berlinese del RSHA - fatta eccezione per gli uffici VI e VII di cui non vi è traccia -: Ufficio I, personale; Ufficio II, amministrazione; Ufficio III, SD; Ufficio IV, Gestapo, Ufficio V, polizia criminale (gli ultimi due
comandati dal tenente Eugen Krause, contemporaneamente sostituto di Saevecke). Come il suo collega Priebke e altri ancora, l'ex commissario Saevecke ha un portamento impeccabile, «veste bene la divisa» - dirà il dottor Gatti, all'epoca medico a San Vittore -, porta sempre con sé un frustino e ostenta tratti da vero Herr Offizier prussiano che non sempre riescono però a contenere il nazista che è in lui né la sua arroganza.



All'indomani dell'8 settembre, accanto ai problemi di ordine più propriamente militare e a quelli connessi allo sfruttamento delle risorse produttive del paese, i nazisti devono affrontare anche quelli della prevenzione e della eliminazione di ogni forma di opposizione politica e sociale, ma non hanno personale da distaccare nel nuovo territorio occupato, sanno che il tempo stringe e sanno anche di doversi muovere in una realtà a loro quasi sconosciuta: l'utilizzo, in funzione esclusivamente strumentale, di quanto sopravvive del vecchio apparato amministrativo e poliziesco italiano, diventa una scelta quasi obbligata.
In base a direttive emanate dal generale Harster il 27 novembre 1943, la polizia criminale (e di sicurezza) tedesca si era riservata la più ampia libertà d'iniziativa nei confronti di quella italiana, arrogandosi l'esclusivo diritto di procedere indiscriminatamente non solo contro cittadini tedeschi residenti in Italia ma anche contro italiani, mentre quella italiana, cui era interdetta ogni misura contro cittadini tedeschi, non poteva
nemmeno operare in assoluta esclusività contro quelli italiani. Principi, questi, applicati nei confronti della polizia di Stato e di tutti i vari uffici di quelle politiche e speciali messe in campo da Guardia nazionale repubblicana, Brigate nere, Legione Muti e tutte le altre innumerevoli formazioni fasciste.
Saevecke aveva dunque non solo il diritto d'ingerirsi in tutti gli affari trattati dalle diverse polizie italiane, ma anche la più ampia autorità su coloro che lavoravano per lui, autorità che di certo non poteva poi essergli contestata per ciò che riguardava i detenuti politici rinchiusi a San Vittore, la
maggior parte dei quali gli veniva consegnata dagli agenti dell'Ufficio speciale dell'Upi, l'Ufficio politico investigativo già della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e dal dicembre 1943 inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana. Anima nera dell'Upi provinciale è il capitano Ferdinando Bossi, il cui comando si trova in corso di porta Venezia 32.
Dal settembre 1943 al settembre 1944 gli arrestati dall'Upi sono stati 1410, 890 dei quali «sono stati deferiti alle Autorità Germaniche».
Saevecke ha utilizzato l'Ufficio politico investigativo nella repressione del movimento partigiano e nella caccia agli ebrei e per questo motivo, e non perché impossibilitato ad intervenire, ha lasciato loro campo libero all'interno di San Vittore. Se avesse voluto avrebbe potuto fin dal primo giorno interdire loro l'accesso alle carceri e impedire che interrogassero anche un solo prigioniero perché, vale la pena ripeterlo, era lui il dirigente responsabile e competente per i detenuti politici rinchiusi a San Vittore.I politici di San Vittore sono tutti ostaggi ed è ancora da lì che nelle prime ore del 10 agosto 1944 vengono prelevati i quindici martiri di piazzale Loreto



Verso le tre antimeridiane dell'8 agosto un camion e rimorchio della Wehrmacht, targato WM 111092, si ferma in viale Abruzzi all'altezza del numero civico 77. Per quale motivo non si sa, né si sa da dove provenga o quale destinazione abbia. Di certo la sosta non è per un guasto meccanico prova ne sia che il suo conducente, il caporalmaggiore Heinz Kuhn non chiede aiuto al vicino albergo Titanus che si trova a duecento metri ed è stato requisito per alloggiarvi i sottufficiali tedeschi, né alla autorimessa, anche lei requisita, in via Nicola Battaglia, a circa un chilometro. Lui, il caporale, è tranquillo e in una città dove da quasi due mesi gli automezzi germanici vengono attaccati in pieno giorno, si mette a dormire nella cabina di guida.
Alle 8.15 del mattino scoppiano «due ordigni applicati ad opera d'ignoti all'autocarro». Il caporale Kuhn, baciato dalla sorte, resta «ferito leggermente alla guancia destra», ma sei passanti rimangono uccisi e altri dieci feriti, cinque dei quali dimessi da Niguarda insieme al caporale dopo essere stati medicati.
La sera del 9 agosto 1944 il comandante provinciale della Gnr, colonnello Pollini, informa il capo della Provincia Piero Parini di aver ricevuto dal comando militare germanico l'ordine di mettergli a disposizione per l'alba del giorno successivo un plotone che dovrà fucilare quindici ostaggi «in base al recente Bando del Maresciallo Kesselring».
Alle cinque del mattino Pollini lo informa che Kolberck non si è ancora fatto trovare. Alla stessa ora i quindici ostaggi stanno per uscire da San Vittore, forse sono già sul camion che li porterà a Loreto. Nel promemoria urgente per il Duce Parini riferisce che hanno cominciato a svegliarli alle 4,30, li hanno fatti scendere in cortile e hanno dato loro una tuta. Qualcuno avrebbe cominciato a spargere la voce che sarebbero stati destinati al servizio del lavoro in Germania. Sul registro di San Vittore vengono scaricati con l'annotazione manoscritta «Trasferiti per Bergamo». Una fonte più diretta ci informa invece che almeno alcuni di loro ebbero immediatamente consapevolezza del destino che li attendeva.
Arrivano in piazzale Loreto alle 5.45, sul posto c'è già un ufficiale tedesco scortato da quattro soldati. Pollini assiste a tutta la scena. L'SS fa mettere gli ostaggi contro una palizzata e, disposti i militi della Muti a semicerchio, ordina immediatamente il fuoco. Al momento dell'esecuzione il piazzale era deserto, stante l'ora.
L'ufficiale tedesco diede l'ordine ai militi di fare un cordone intorno al mucchio di cadaveri, al di sopra dei quali affisse un cartello che indicava la rappresaglia per l'attentato di V.le Abruzzi. Il cartello era firmato ‘Il Comando Militare Tedesco".



Il capo della Provincia sa che quel pubblico massacro e quei quindici cadaveri abbandonati sull'asfalto non sono soltanto, come scriverà a Mussolini con un tardivo soprassalto di sensibilità, «un'offesa alla tradizione civile di Milano», sono un trauma per l'intera cittadinanza e soprattutto gli costeranno la credibilità di quei ceti medi e di quella borghesia imprenditoriale che aveva cercato di rassicurare.
Alle 8 Parini telefona inutilmente a Tensfeld per ottenere l'autorizzazione a farli trasportare all'obitorio: il generale è assente e il colonnello Kolberck, come il generale Wening, come lo stesso Rauff, se ne lavano le mani; i cadaveri, dopo un energico intervento del cardinale Schuster, verranno rimossi nel pomeriggio, ma intanto non si contano i milanesi che si sono recati in piazzale Loreto.
Dalla ricostruzione degli avvenimenti fatta da Sua Eccellenza Parini sulla scorta del racconto del colonnello Pollini, la rappresaglia sarebbe stata voluta e ordinata dell'SS-Brigadenführer und Generalmajor der Polizei (generale di brigata delle SS e della polizia) Willy Tensfeld, capo delle SS e della polizia per l'Italia nordoccidentale, il quale, direttamente subordinato a Wolff, doveva coordinare l'impiego tattico delle SS, della Ordnungspolizei e della polizia ausiliaria italiana nella repressione dei sabotaggi, nel controllo delle masse operaie e, più in generale le forze della Gnr, nella lotta antipartigiana.
Rauff era tuttavia responsabile del mantenimento dell'ordine non soltanto nel milanese ma in tutto il territorio affidatogli e, in quanto comandante la Sipo-SD dell'Italia nordoccidentale, se era lui a dover in ultima istanza rispondere ai suoi superiori gerarchici anche della sicurezza in provincia di Milano, e di ciò che Saevecke faceva o non faceva per garantirla, tale compito spettava in primo luogo e direttamente a Saevecke che, a sua volta, doveva risponderne a Rauff. Se dunque vi fu una richiesta d'autorizzazione per procedere alla rappresaglia di piazzale Loreto, ritenuta provvedimento indispensabile per il ristabilimento di quell'ordine di cui Saevecke era il responsabile immediato, è logico pensare che tale richiesta sia partita da Saevecke e che Rauff l'abbia solo inoltrata, magari sostenendola, per via gerarchica.
E’ certo, pertanto, che da parte del comando piazza della Wehrmacht, in risposta agli attentati e ai “disordini” accaduti tra la metà di luglio e il 13 agosto 1944, non fu ordinata nessuna rappresaglia su ostaggi, nessuna fucilazione bensì unicamente l’anticipazione del coprifuoco.
Fu dunque Saevecke a volere e a richiedere la fucilazione dei quindici martiri e, a questo punto, poco conta che sia stata magari avallata da Tensfeld in qualità di diretto rappresentante territoriale di Wolff.



Fin dalla seconda metà del 1944 i vertici delle SS, utilizzando con estrema cautela e diffidenza prima la mediazione del Vaticano e poi di personaggi del mondo industriale, avviarono una serie di abboccamenti con i servizi alleati per sondare le possibilità di negoziare la resa sul fronte italiano.
Un bel giorno agli inizi del gennaio 1945, in debito sfacciato con la fortuna, Saevecke cattura Ferruccio Parri, la più prestigiosa personalità politica e militare della Resistenza. Con «Maurizio» Saewecke si comporterà poi con una diplomatica correttezza che, in previsione dell'ormai inevitabile sconfitta, non è malignità attribuire a una opportunistica valutazione dell'importanza del prigioniero, ma per il resto, nel dirigere la repressione antifascista, il capitano non sembra proprio essere cambiato.
Fosse stato preso un anno prima c'è da giurare che sarebbe morto tra le più atroci torture, ma i tempi sono cambiati, l'uomo è personaggio di importanza europea, di «Europa Format» come lo definisce Wolff, e adesso per i tedeschi è di primario interesse l'acquisizione di elementi di
valutazione politica. Più che la conoscenza della rete organizzativa del Comando generale partigiano o la dislocazione delle forze, a Saevecke e ai suoi superiori necessita ora capire se e quali margini esistano per inserirsi in quelle contraddizioni e per manovrare una pace separata con gli
occidentali. Saevecke, che quando si tratta di personalità italiane di rilievo si dimostra pienamente
consapevole dei limiti della brutalità dei suoi subalterni, affida a Luca Osteria l'incarico di interrogare Parri, ma l'ex provocatore dell'Ovra ha definitivamente fatto il salto della quaglia e perquasi un mese non soltanto concerterà con Parri le risposte, passando poi a Saevecke relazioni dal contenuto inconsistente e fuorviante, ma mostrerà al prigioniero importanti documenti riservati di fonte germanica, finché il 3 febbraio 1945 «Maurizio» viene trasferito al comando centrale di Harster a Verona. Vi rimane fino al 7 marzo quando, per diretto intervento di Wolff viene prelevato e accompagnato in Svizzera insieme al maggiore degli alpini Antonio Usmiani: gli americani ne hanno preteso la liberazione come pregiudiziale prova di buona fede per la continuazione delle trattative. Ad Harster Wolff dà a intendere che si tratta di uno scambio di prigionieri, un regalo per il compleanno di Hitler: Parri in cambio del colonnello Wünsche, ex aiutante di campo del Führer. Il gioco è rischioso anche per Wolff: Himmler ha proibito qualsiasi contatto con gli angloamericani e lo stesso Harster, che sul finire del 1944 ha avuto degli abboccamenti con il presidente della Snia Franco Marinotti nell'eventualità di un passaggio pacifico di potere agli alleati, da tempo ne spia le mosse e adesso segnala a Himmler la strana liberazione di Parri. 



Quando alla fine del febbraio 1945 il fidato Osteria sparisce improvvisamente, Saevecke lo rimpiazza conVincenzo Cairella, dirigente la sezione dell'ufficio politico della Muti distaccata nella caserma Salines di via Tivoli, e per opera precipua del quale, verso la fine del 1944 divennero assai stretti i rapporti della Muti col comando SS dell'albergo Regina. Non è invece possibile appurare come si sia comportato rispetto alla prosecuzione delle trattative segrete fra tedeschi e angloamericani. Nei documenti e nella memorialistica sui negoziati con gli alleati, e su quelli poi abortiti con il Cln tramite la Curia milanese, ricorrono i nomi di Wolff, Dollmann, Rauff e del tenente Guido Zimmer, aiutante di campo di Wolff, compare anche quello del capitano Josef Vötterl, comandante la polizia di sicurezza alla frontiera di Como, ma non compare mai quello di Saevecke.
Né si sa quale posizione abbia preso dopo il 17 aprile 1945, quando, in seguito alla partenza di Wolff richiamato improvvisamente in Germania da un Himmler sempre più insospettito, il quadro della situazione milanese sembra improvvisamente peggiorare.
Impossibile che dal suo posto d'osservazione Saevecke non abbia colto i maneggi di Rauff e Dollmann con la Curia milanese, ma ormai lo sfoggio di un fanatismo fuori tempo può costare caro. Meglio asserragliarsi insieme agli altri all'interno del Regina e aspettare l'ala protettrice degli
americani.
Saevecke e i suoi sanno in quali rischi incorrerebbero se si arrendessero ai partigiani e Wolff ha inoltre ottenuto dagli alleati l'impunità per i negoziatori. Si tratta di attendere due o tre giorni, l'albergo è difendibile e per stanarli la Resistenza dovrebbe distruggere l'intero palazzo, sacrificare altri combattenti e non ne vale la pena, il prezzo della libertà è già stato salato. Questa, almeno, la motivazione che fornirà Pietro Secchia, ma oltre alla volontà di non versare altro sangue, sui comandi partigiani deve aver pesato anche il volere degli americani, a ricordare il quale ci penserà molto probabilmente anche il capitano dell’Office strategic services Emilio Quintius Daddario.
Il 28 aprile Daddario fa la spola tra l’albergo Regina e il comando generale del Corpo volontari della libertà, poche ore dopo, il 29 aprile, i carri armati americani entrano in città e il 30, sotto la loro protezione, Saevecke abbandona la sede del suo comando dopo diciannove mesi e diciassette giorni di occupazione spietata. Di quel giorno, e della fine dell'Aussenkommando Mailand, rimane una serie di fotografie che fissano la resa e l'evacuazione del Regina, e le riprese filmate dai cineoperatori militari della V armata statunitense e da un partigiano al seguito delle brigate di Moscatelli: gli appartenenti alla Wehrmacht, sotto scorta partigiana, sfilano a piedi per via Dante preceduti da due ufficiali che si coprono il volto davanti all'obiettivo; le SS, truppa e graduati insieme alle segretarie del comando, vengono caricati su camion mentre gli ufficiali lasciano l'albergo a bordo di alcune macchine scoperte ostacolati da una folla sempre più minacciosa che tenta di agguantarli, tanto che gli americani sono costretti a sparare alcune raffiche di mitra in aria per consentire loro il passaggio. Saevecke non sembra comunque apparire nei fotogrammi impressionati, forse se lo sono già portato via gli alleati, forse, come altri, non vuole essere immortalato in quello che non può non vivere come il momento dell'umiliante sconfitta della sua arroganza.



Saevecke fu reclutato dalla CIA ( Central Intelligence Agency ) americana verso la fine degli anni quaranta e gli fu attribuito il nome in codice "Cabanio". Probabilmente fu dovuto a tale passaggio nei servizi statunitensi che le indagini relative la suo caso, istruite già alla fine della guerra dallo Special Investigation Branch che si occupava dei criminali di guerra nazifascisti furono accantonate, malgrado le foto degli eccidi e le oltre 40 testimonianze a carico raccolte, inclusa la piena confessione, resa dallo stesso Saevecke ai militari americani d'occupazione, relativamente alla Strage di Piazzale Loreto e la fucilazione per rappresaglia di altri otto civili innocenti a Corbetta (Milano) nell'estate del 1944.
Finì così nell'«armadio della vergogna» anche il fascicolo che riguardava la strage del 10 agosto 1944 , contrassegnato dal numero 2167, riguardante 13 tedeschi e 4 italiani. Tra i tedeschi incriminati il colonnello Walter Rauff (comandante delle SS nella regione Italia Nord-Ovest), il generale Willy Von Tensfeld ed il capo della piazzaforte di Milano generale Von Goldbeck.

Saevecke fu introdotto nei ranghi della polizia della Germania occidentale e vi fece carriera indisturbato, giungendo a ricoprire il grado di vicedirettore dei servizi di sicurezza del Ministero degli Interni. La notte del 27 ottobre 1962 organizzò ed eseguì una irruzione illegale ed intimidatoria ai danni delle redazioni del settimanale Der Spiegel a Bonn e ad Amburgo. Ne seguì invece una violenta campagna stampa contro Saevecke che condusse alla formulazione di accuse circa la sua partecipazione alla consumazione di guerra in Tunisia e in Italia. Allarmate, le autorità tedesche chiesero alle omologhe italiane notizie sull'attività di Saevecke durante la guerra. Dalle indagini condotte dal giudice milanese Guido Salvini, in qualità di consulente della commissione parlamentare, è emerso che nel 1963, a seguito della richiesta tedesca - la Procura Generale Militare e il Gabinetto del Ministero della Difesa si scambiarono il fascicolo per lungo tempo senza mai trasmetterlo a Bonn ed archiviandolo il 20 maggio 1963. In tal modo Saevecke proseguì indisturbato o quasi la sua carriera nella polizia tedesca sino alla pensione.

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Saewecke è stato sottoposto a processo in Italia solo grazie al ritrovamento di documenti occultati per decenni in Italia a seguito delle indagini condotte dal Procuratore militare Antonino Intelisano durante il processo al criminale nazista Erich Priebke; nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura Generale Militare della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, fu ritrovato il cosiddetto «armadio della vergogna», nel quale erano occultati sin dal primo dopoguerra numerosi fasciscoli relativi alle stragi nazifasciste commesse in Italia durante la II guerra mondiale ed ai quali non era mai stato dato seguito. 
I fascicoli, conservati in voluminosi faldoni, erano relativi a centinaia di crimini che, complessivamente, causarono molte migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile (si stima una cifra di circa 15.000 morti). Tra questi fascicoli erano compresi anche quelli che riguardavano le stragi commesse per ordine di Saeveke, tra le quali l'eccidio consumato in Piazzale Loreto.
Il ritrovamento dei faldoni - oltre a rendere possibile l'istruzione dell'indagine e del processo contro il responsabile della strage milanese e di altri procedimenti contro criminali di guerra - suscitò vivo scandalo e fu alla base dell'istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti istituita durante la XIV legislatura (2003/2006).
Nonostante le prove già raccolte nel 1946 dalle autorità d'occupazione inglesi sulle responsabilità di Saewecke in merito alla strage di Piazzale Loreto, nel dopoguerra l'ex capitano delle SS lavorò prima al servizio della CIA e poi, riammesso nei ranghi della polizia federale tedesca, fece una brillante carriera divenendo vicedirettore dei servizi di sicurezza della ex Germania ovest fino al suo pensionamento, avvenuto nel 1971.
La richiesta d'estradizione, inoltrata dopo la pronuncia della sentenza dal ministero di Giustizia italiano, non è stata accolta dalle competenti autorità federali tedesche ma il 18 luglio 2000 il Ministero federale degli Affari esteri informava il ministero italiano che la Procura di Osnabrück, esaminati gli atti processuali inviati dalla Procura militare di Torino, aveva aperto un procedimento giudiziario a carico dell'ex capitano Saewecke. I
l procedimento è stato archiviato in seguito al decesso di Saewecke, avvenuto nel dicembre 2000.
Il documento che ha dato il via alla ricerca

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