martedì 23 agosto 2011

Il genocidio dei cattolici nella Spagna rossa.

In questi tempi, quando da più parti si accusa  Franco di ogni nefandezza durante la guerra civile spagnola accomunando ai falangisti i loro alleati italiani e tedeschi, mi è capitato di leggere sul Corsera di alcuni giorni fa, un articolo a firma di Vittorio Messori, storico della Chiesa e scrittore di fama mondiale, a proposito del film sulla vita di Escrivà de Balaguer, il fondatore dell'Opus Dei,  di prossima uscita nelle nostre sale.
Il film è opera di Roland Joffé, un ebreo di origine francese nato in Inghilterra che si dichiara agnostico, ha avuto simpatie per i comunisti e cambiato parecchie mogli. Scrive Messori: "Un merito del regista, ci pare, è non aver nascosto la volontà, da perte delle sinistre spagnole, di genocidio del clero, massacrato solo perchè cattolico. La parola "genocidio" non è eccessiva: nella diocesi di Barbastro, città natale di don Escrivà, l'88 per cento dei sacerdoti fu ucciso, nei modi più barbari, nelle prime settimane di guerra civile e la mattanza si estese ai laici se "amici dei preti". Le suore furono stuprate, spesso da decine di "compagni", fino alla morte. Le salesiane di Madrid furono massacrate dalla canaille, cui era stato fatto credere che, alle bambine dei loro oratori, davano caramelle avvelenate. Alla fine questo il bilancio: uccisi 4.184 sacerdoti diocesani, 2.365 frati, 2.830 religiose, nonchè 13 tra vescovi e arcivescovi. Inoltre decine di migliaia di di laici cattolici. Alcuni furono crocifissi alle porte delle loro chiese, impalati, legati a bocche di cannone, squartati. Anche i genitori furono puniti per la colpa di avere tali figli: la madre di un gesuita fu soffocata cacciandole un crocifisso nella gola, molti furono bruciati vivi, altri gettati davanti ai tori, con gli assassini in divisa ad acclamare nell'arena. Papa Wojtyla ha proceduto alla beatificazione in massa di alcune centinaia di questi martririzzati solo perchè cristiani. Nessuna chiesa, nelle zone tenute dai governativi, scampò all'incendio o, almeno, alla devastazione: scomparve così la metà del patrimonio artistico spagnolo. 
Quanto ai franchisti, non furono di certo cherubini nè serafini, : lavorarono anch'essi molto con i plotoni di esecuzione ( sia durante che, ancor più grave, dopo la guerra ) e fucilarono essi pure dei preti: ma per ragioni politiche non religiose. Si trattava di alcuni sacerdoti baschi, militanti per la sevessione dalla Spagna.
Sfidando la rimozione attuale di quei massacri ( i più sanguinosi dopo quelli della Francia del Terrore ) l'ebreo agnostico Joffè fa certamente opera politicamente scorretta, dunque meritoria."

martedì 2 agosto 2011

La schiavitù nel Tigrè

Pochi sanno che la schiavitù, tanto deprecata oggi da tutti governi democratici, era comunemente praticata in quei paesi che questi governi difendevano dall'aggressione fascista negli anni trenta, ma ancor di meno sono quelli che sanno cosa fece il governo italiano subito dopo la fine della guerra di Abissinia. Questo manifesto bilingue ( italiano e amarico ) stampato il 14 ottobre 1935 ad Adua e firmato da Emilio De Bono, è famoso in tutto il mondo anche se poco noto dalle nostre parti.  Rappresenta il primo atto ufficiale del governo italiano che con esso proclamava, forse per primo in europa, che "Dove sventola la bandiera d'Italia ivi è la libertà. Perciò nel vostro paese la schiavitù , sotto qualunque forma, è soppressa." 
Gli Amara, nelle loro conquiste, hanno spesso modificato i nomi delle popolazioni sottomesse con un nome simile ma con significato dispregiativo, o addirittura con un nome che esprimesse lo stato di schiavitù. La provincia più settentrionale dell’Etiopia, che oggi è uno stato della Federazione Etiopica, si chiama Tigrai. Molti studiosi continuano a chiamarla Tigré (che è il nome con cui gli amara chiamano i tigrini) non sapendo che tigré in amarico significa “sotto il mio piede”, cioè “servo”. Tigrè invece era una popolazione dell’Eritrea settentrionale, con una struttura sociale in cui i tigré (servi) erano governati da un’aristocrazia di capi detti sciumaghillè (anziani).